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8/ 9/ 2024 ------ 03:15

 

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Un dolore senza nome

    di Clau­dio Magris (dal Cor­riere della Sera)

    Nella parabola evan­gel­ica degli operai della vigna quelli che hanno lavo­rato soltanto un’ora, l’ultima della gior­nata, ricevono lo stesso salario di quelli ingag­giati all’alba, che hanno lavo­rato tutto il giorno. Ma, se ave­vano atteso oziosi tutto il giorno, è per­ché nes­suno prima li aveva chia­mati; per­ché fino a quel momento non ave­vano avuto, a dif­ferenza degli altri, alcuna opportunità.

    L’inaccettabile dis­ug­uaglianza di partenza tra gli uomini, che des­tina alcuni ad una vita mis­er­abile e impedisce ogni selezione di mer­ito, va dunque cor­retta, anche con mis­ure appar­ente­mente parziali e dis­egual­i­tarie, come fa il padrone della vigna.

    Il mondo intero è un turpe, equiv­oco teatro di dis­ug­uaglianze; non di inevitabili e pos­i­tive diver­sità di qual­ità, ten­denze, capac­ità, doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di oppor­tu­nità. È un’offesa all’individuo, a tanti sin­goli indi­vidui, che diviene un dramma anche per l’efficienza di una società.


    I profughi che arrivano alle nos­tre coste e alle nos­tre isole apparten­gono a questi esclusi a pri­ori, a questi cor­ri­dori nella corsa della vita con­dan­nati a par­tire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi per­denti già prima della gara. A parte il caso speci­fico dell’emergenza di queste set­ti­mane, con tutte le sue vari­abili — l’improvvisa crisi nordafricana, la con­fu­sione e mist­i­fi­cazione di pietà, ragioni uman­i­tarie, inter­essi eco­nomici e polit­ica di potenza, la lac­er­azione e l’impotenza o meglio quasi l’inesistenza di un’Europa con una sua polit­ica — quello che è suc­cesso e suc­cede a Lampe­dusa non è solo un grave momento, ma anche un’involontaria prova gen­erale di eventi e situ­azioni des­ti­nati a ripetersi nelle più varie occa­sioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e impos­si­bili, che potranno aprire un abisso fra uman­ità, sen­ti­menti umani e doveri morali da una parte e pos­si­bil­ità con­crete dall’altra.
    Il numero dei dan­nati della terra, gius­ta­mente desiderosi di vivere con un min­imo di dig­nità, è tale da poter un giorno diventare insosteni­bile e ren­dere mate­rial­mente impos­si­bile ciò che è moral­mente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facil­mente, dinanzi a una situ­azione per­al­tro ancora sosteni­bile e meno dram­mat­ica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a Lampe­dusa è un sim­bol­ico seg­nale di una pos­si­bil­ità dram­mat­ica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero pro­porzional­mente altret­tanto ingente di fug­giaschi, le reazioni sareb­bero — sgrade­vol­mente ma com­pren­si­bil­mente — ben più aspre.

    Quello che è suc­cesso a Lampe­dusa dimostra, con la vio­lenza e l’ambiguità di una parabola evan­gel­ica, la neces­sità e l’impossibilità di una aut­en­tica fra­ter­nità umana uni­ver­sale, il dovere e il non potere accogliere tutti col­oro che chiedono aiuto.
    Pro­prio per questo, pro­prio per­ché la situ­azione è così grave e implica con­trad­dizioni forse insan­abili per la civiltà, quel di più di ottuso rifi­uto razz­ista, di cal­co­lato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inac­cetta­bile. C’è un ele­mento quasi sim­bol­ico e in realtà ter­ri­bil­mente con­creto che esem­pli­fica questa trage­dia e richiama la parabola evan­gel­ica inter­pre­tata in questo senso da un sag­gio di Gio­vanni Bazoli. Bar­coni sono affon­dati nel Mediter­ra­neo, per­sone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chia­mata e nem­meno il sal­vagente dell’ultima ora; sono stati can­cel­lati dal mare come se non fos­sero mai esis­titi, sepolti senza un nome. Di molti, nes­suno forse saprà nem­meno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il min­imo di una dig­nità, il nome, segno di un unico e irripetibile indi­viduo. La can­cel­lazione del nome è un oltrag­gio supremo, di cui la sto­ria umana è crudel­mente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, rac­conta ad esem­pio di un bam­bino ebreo nato in un lager di ster­minio e ucciso prima di rice­vere un nome. Meno tragico ma altret­tanto umiliante è quanto rac­conta il mares­ciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga Mar­cia, quando nelle sue mem­o­rie dice che sua madre con­tad­ina non aveva un nome, come non lo ave­vano le galline del pol­laio, a dif­ferenza degli ani­mali che ami­amo e cui riv­ol­giamo affetti e cure. Nella cer­chia allargata della mia famiglia acquisita c’è, in pas­sato, una bam­bina ille­git­tima, causa dell’ostracismo des­ti­nato a quell’epoca a sua madre nubile, morta pic­cola; ho cer­cato invano, a dis­tanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una ver­gogna non esservi riuscito.

    Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schi­avi senza nome per­iti nella tratta dei neri e get­tati nelle acque dalle navi negriere. Oggi — nonos­tante le gravi dif­fi­coltà, fra l’altro messe ingius­ta­mente soprat­tutto sulle spalle dell’Italia — si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il Van­gelo chiama gli ultimi e che è dif­fi­cile immag­inare pos­sano vera­mente un giorno diventare i primi, come il Van­gelo annun­cia. Tal­volta sono vil­mente con­tento che la mia età mi possa forse preser­vare dal vedere un even­tuale giorno in cui non fosse mate­rial­mente pos­si­bile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.

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