di ClauÂdio Magris (dal CorÂriere della Sera)
Nella parabola evanÂgelÂica degli operai della vigna quelli che hanno lavoÂrato soltanto un’ora, l’ultima della giorÂnata, ricevono lo stesso salario di quelli ingagÂgiati all’alba, che hanno lavoÂrato tutto il giorno. Ma, se aveÂvano atteso oziosi tutto il giorno, è perÂché nesÂsuno prima li aveva chiaÂmati; perÂché fino a quel momento non aveÂvano avuto, a difÂferenza degli altri, alcuna opportunità .
L’inaccettabile disÂugÂuaglianza di partenza tra gli uomini, che desÂtina alcuni ad una vita misÂerÂabile e impedisce ogni selezione di merÂito, va dunque corÂretta, anche con misÂure apparÂenteÂmente parziali e disÂegualÂiÂtarie, come fa il padrone della vigna.
Il mondo intero è un turpe, equivÂoco teatro di disÂugÂuaglianze; non di inevitabili e posÂiÂtive diverÂsità di qualÂità , tenÂdenze, capacÂità , doti, risorse, ruoli sociali, bensì di punti di partenza, di opporÂtuÂnità . È un’offesa all’individuo, a tanti sinÂgoli indiÂvidui, che diviene un dramma anche per l’efficienza di una società .
I profughi che arrivano alle nosÂtre coste e alle nosÂtre isole appartenÂgono a questi esclusi a priÂori, a questi corÂriÂdori nella corsa della vita conÂdanÂnati a parÂtire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perÂdenti già prima della gara. A parte il caso speciÂfico dell’emergenza di queste setÂtiÂmane, con tutte le sue variÂabili — l’improvvisa crisi nordafricana, la conÂfuÂsione e mistÂiÂfiÂcazione di pietà , ragioni umanÂiÂtarie, interÂessi ecoÂnomici e politÂica di potenza, la lacÂerÂazione e l’impotenza o meglio quasi l’inesistenza di un’Europa con una sua politÂica — quello che è sucÂcesso e sucÂcede a LampeÂdusa non è solo un grave momento, ma anche un’involontaria prova genÂerale di eventi e situÂazioni desÂtiÂnati a ripetersi nelle più varie occaÂsioni e parti del mondo, di migrazioni inevitabili e imposÂsiÂbili, che potranno aprire un abisso fra umanÂità , senÂtiÂmenti umani e doveri morali da una parte e posÂsiÂbilÂità conÂcrete dall’altra.
Il numero dei danÂnati della terra, giusÂtaÂmente desiderosi di vivere con un minÂimo di digÂnità , è tale da poter un giorno diventare insosteniÂbile e renÂdere mateÂrialÂmente imposÂsiÂbile ciò che è moralÂmente doveroso ovvero la loro accoglienza. In Italia certo ancora si strepita troppo facilÂmente, dinanzi a una situÂazione perÂalÂtro ancora sosteniÂbile e meno dramÂmatÂica di altre sinora affrontate in altri Paesi. Ma quello che è avvenuto a LampeÂdusa è un simÂbolÂico segÂnale di una posÂsiÂbilÂità dramÂmatÂica ben più grande; se a Milano o a Firenze arrivasse di colpo un numero proÂporzionalÂmente altretÂtanto ingente di fugÂgiaschi, le reazioni sarebÂbero — sgradeÂvolÂmente ma comÂprenÂsiÂbilÂmente — ben più aspre.
Quello che è sucÂcesso a LampeÂdusa dimostra, con la vioÂlenza e l’ambiguità di una parabola evanÂgelÂica, la necesÂsità e l’impossibilità di una autÂenÂtica fraÂterÂnità umana uniÂverÂsale, il dovere e il non potere accogliere tutti colÂoro che chiedono aiuto.
ProÂprio per questo, proÂprio perÂché la situÂazione è così grave e implica conÂtradÂdizioni forse insanÂabili per la civiltà , quel di più di ottuso rifiÂuto razzÂista, di calÂcoÂlato e manovrato allarmismo, di livida chiusura è inacÂcettaÂbile. C’è un eleÂmento quasi simÂbolÂico e in realtà terÂriÂbilÂmente conÂcreto che esemÂpliÂfica questa trageÂdia e richiama la parabola evanÂgelÂica interÂpreÂtata in questo senso da un sagÂgio di GioÂvanni Bazoli. BarÂconi sono affonÂdati nel MediterÂraÂneo, perÂsone sono annegate senza che di esse si conosca il nome. Questi operai non hanno avuto la chiaÂmata e nemÂmeno il salÂvagente dell’ultima ora; sono stati canÂcelÂlati dal mare come se non fosÂsero mai esisÂtiti, sepolti senza un nome. Di molti, nesÂsuno forse saprà nemÂmeno che sono morti; ad essi è stato tolto anche il minÂimo di una digÂnità , il nome, segno di un unico e irripetibile indiÂviduo. La canÂcelÂlazione del nome è un oltragÂgio supremo, di cui la stoÂria umana è crudelÂmente prodiga. Livio Sirovich, in un suo libro, racÂconta ad esemÂpio di un bamÂbino ebreo nato in un lager di sterÂminio e ucciso prima di riceÂvere un nome. Meno tragico ma altretÂtanto umiliante è quanto racÂconta il maresÂciallo Chu Teh, lo stratega cinese della Lunga MarÂcia, quando nelle sue memÂoÂrie dice che sua madre conÂtadÂina non aveva un nome, come non lo aveÂvano le galline del polÂlaio, a difÂferenza degli aniÂmali che amiÂamo e cui rivÂolÂgiamo affetti e cure. Nella cerÂchia allargata della mia famiglia acquisita c’è, in pasÂsato, una bamÂbina illeÂgitÂtima, causa dell’ostracismo desÂtiÂnato a quell’epoca a sua madre nubile, morta picÂcola; ho cerÂcato invano, a disÂtanza di tanti decenni, di ritrovare il suo nome e sento come una verÂgogna non esservi riuscito.
Il mare è un enorme cimitero di ignoti, come gli schiÂavi senza nome perÂiti nella tratta dei neri e getÂtati nelle acque dalle navi negriere. Oggi — nonosÂtante le gravi difÂfiÂcoltà , fra l’altro messe ingiusÂtaÂmente sopratÂtutto sulle spalle dell’Italia — si può e quindi si deve fare ancora molto per accogliere quelli che il VanÂgelo chiama gli ultimi e che è difÂfiÂcile immagÂinare posÂsano veraÂmente un giorno diventare i primi, come il VanÂgelo annunÂcia. TalÂvolta sono vilÂmente conÂtento che la mia età mi possa forse preserÂvare dal vedere un evenÂtuale giorno in cui non fosse mateÂrialÂmente posÂsiÂbile accogliere chi fugge da una vita intollerabile.